From Svalbard with love n.7

La settimana scorsa ho avuto la grande fortuna di conoscere di persona uno dei miei artisti preferiti.

Persona cordiale, semplice, capace di mettere a proprio agio chi in quella circostanza a proprio agio non era. Gran virtù, a maggior ragione se a possederla è qualcuno che ti sta parlando dall’alto della sua gran carriera.

Temo sempre l’incontro con artisti che stimo. Non so mai chi mi troverò davanti. Temo sempre di rimanerne delusa, di incontrare qualcuno per il quale ho ammirazione e poi scoprire che anziché mettermi a mio agio mi fa capire su che livello sta lui rispetto al livello (solitamente più in basso) su cui sto io.

Si perché il più delle volte noi artisti (e non), nutriamo il nostro ego. La nostra necessità di sentirci importanti. Di nutrire quella parte di noi stessi che, in fin dei conti, non porta a nulla di buono (o forse si, penserà qualcuno). Finiamo con il perdere il contatto con la realtà di ciò che siamo realmente, della nostra caducità, del fatto che alla fine siamo tutti uguali, presunti immortali che diventeranno polvere di stelle. Forse tutto questo si traduce nella paura di cadere nell’oblio. Nella tremenda consapevolezza che una volta passati dall’altra non saremo più nulla. E allora il nostro Ego, così terrorizzato e consapevole, ha bisogno di nutrirsi a dismisura, ricercando lodi, sentendosi migliore degli altri, credendo di dover ottenere di più, di più, di più, così forse, povero illuso, verrà ricordato nei secoli dei secoli.

Questo per dire che Rocca non è affatto così. Avrei voluto fargli milioni di domande (ma poi sarei passata per la pazza che non lo molla più). Allora gliene ho fatte solo alcune. Sul fatto se sia vero che il disegno sta cambiando, che ormai basta fare due righe e saperle raccontare bene. E mi ha fatto piacere sapere che no, non basta questo. Che prima si deve saper costruire per poi decostruire. Ma sopratutto, e questo mi si è impresso nella mente come il volto di Ottaviano Augusto sui Sesterzi, che l’opera deve racchiudere chi siamo, la nostra poetica, la ricerca di noi stessi. Perché un disegno iperrealista porta a crogiolare l’ego, a dire a ste stesso che è stato bravo. Ma non racconta nulla di ciò che siamo. E queste parole hanno così tanto significato per me. Sul fatto che la mia pittura figurativa non ha nulla di sbagliato perché sta raccontando chi sono, la mia poetica, il mio modo di vedere come voglio fare pittura. Che nessuno mi obbliga a seguire le mode, ciò che non mi rappresenta. Perché la pittura è questo. una ricerca di se. Di cosa ci fa stare bene ma male. Perché se inconsciamente e di punto in bianco decidiamo di disegnare una determinata cosa in un determinato modo un motivo c’è. E lo sappiamo davvero soltanto noi.

Grazie Gialuigi, farò tesoro di ciò che mi hai detto

E grazie Stefania, senza di te non sarebbe stato possibile, perciò si, tornando a quanto dicevamo a cena, a me la vita l’hai un po’ cambiata.

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